L’Ombra di Shiva

 

di

Lorenzo Tintori

 

 

Shiva è una delle più importanti divinità indiane. Una delle più antiche del mondo. Il dio delle contraddizioni, l’asceta erotico, il Puro, il Signore del Fallo. Una divinità primitiva giunta fino a noi, il Signore degli Animali che abita le foreste e i picchi delle montagne. Il suo corpo è coperto dalla cenere dei campi crematori, il suo corteo è formato da demoni e vampiri, spiriti e mostri abominevoli che si aggirano nelle tenebre della notte. La danza di Shiva distrugge e ricrea l’universo. Nessuna divinità risulta tanto complessa e tanto grande quanto il Signore della Danza, e la sua contraddizione gli ha consentito di giungere, primigenio, sino a noi. È Osiride dal fallo perennemente eretto, è Dioniso ebbro e feroce. Sopravvissuto alle Ere, si è trasformato in divinità benevola, adorata in India, Nepal, Bhutan e Tibet, dove sorge il sacro Kailash, dimora del dio e della sua paredra Parvati, figlia di Himalaya.

   Esistono ancora uomini che adorano l’aspetto terrifico di Shiva dai mille nomi. Alcuni, la maggior parte, tramite il Tantra, all’interno del quale ricopre un ruolo fondamentale la controparte femminile di Shiva, la Shakti che si incarna in tutte le dee indiane. Vi sono però uomini che si spingono oltre. Uomini che non si limitano ai rituali segreti, svolti tra le ombre illuminate dalle pire dei campi crematori. I rituali profondamente esoterici del Tantra vengono superati da personaggi di cui anche in India si parla con timore. Il loro nome è aghori.

   Gli aghori traggono il nome da Aghora, epiteto di Shiva che significa “Il Senza Paura”. La loro esistenza è volta a dimostrarsi degni di tale appellativo.

   Per scovare un aghori, mi sono recato nelle foreste indiane, tra le più estese del mondo. Asceti erranti, come molti altri in India, gli aghori rifuggono la società e non è semplice entrare in contatto con alcuni di loro. Un gruppo tra i più celebri risiede a Varanasi, la città sacra a Shiva, e svolge in totale libertà i rituali estremi che la loro disciplina impone. Costoro, tuttavia, non sono rintracciabili tra le miriadi di sadhu che spiccano nella folla accalcata sui ghat. Si nascondono agli occhi dei turisti e dei curiosi, vivendo dell’elemosina dei locali. Una componente fondamentale di tale elemosina è il whisky, che gli aghori consumano insieme alla cannabis, pianta sacra a Shiva, durante i loro rituali.

   L’aghori della foresta in cui mi sono recato rispondeva a un profilo più comune. In genere, infatti, questi “asceti” erranti, vivono in solitudine e si riuniscono solamente qualche volta all’anno.

   La guida che mi condusse da lui, un ragazzo dall’originale nome di Shivaji, mi raccontò della prima volta in cui alcuni abitanti del suo villaggio lo incontrarono. Non seppero mai da quanto tempo si trovasse in quel luogo, perché lui non lo disse. Non parlava da anni, secondo Shivaji, e si muoveva pochissimo, fatta eccezione per lo yoga che praticava all’alba e al tramonto. Al villaggio era credenza comune che l’aghori della foresta non dormisse mai. Erano altrettanto certi che si nutrisse, perché, dal giorno in cui avevano scoperto la sua presenza, quotidianamente gli venivano portate offerte di riso, acqua e whisky, e lui consumava ogni cosa.

   Quando Shivaji mi disse che eravamo vicini alla meta, annuii e promisi di tacere, come concordato. Cercando di ignorare le legioni di insetti attorno a me e l’umida calura che per nulla sembrava preoccupare Shivaji, aumentai il passo per raggiungere la piccola radura, casa dell’aghori.

   La prima cosa che mi colpì fu il suo aspetto. Sedeva a occhi chiusi, nella posizione del loto, coperto di ceneri e sporcizia. I lunghi capelli arruffati cadevano fino a terra, neri e luridi come la barba incolta che cresceva a chiazze sul suo viso. Il petto era completamento glabro, la postura dritta e ferma nella posizione che stava mantenendo da ore e che avrebbe potuto sostenere per interi giorni. Aveva unghie stranamente corte, piene di terriccio e resti di cenere. L’unico movimento percettibile in tutta la radura era il lieve gonfiarsi del petto dell’aghori. Nessun animale si muoveva attorno a lui. Sembrava un albero della foresta, un’antica creatura viva, eppure immobile da secoli, indifferente al mondo e agli eventi.

   Vidi i resti di un falò accanto all’asceta. Shivaji mi disse che spesso gli abitanti del villaggio portavano all’aghori le ceneri dei loro defunti e questi le spargeva tra i suoi capelli e sul suo corpo nudo. Tale pratica veniva considerata onorevole e sacra, al punto che le famiglie dovevano discutere a lungo per stabilire a chi spettasse la gloria del rituale. Il capo villaggio assicurava una rotazione periodica, e, considerato l’elevato numero di decessi nel villaggio, praticamente tutte le famiglie potevano fregiarsi di un parente liberato dal ciclo delle rinascite grazie all’aghori.

   Feci un cenno alla mia guida, perché volevo uscire dalla vegetazione e arrivare a pochi metri dall’asceta – termine che, peraltro, non si adatta totalmente a un aghori, e tantomeno a un tantrika. Entrambi i praticanti infatti alternano periodi di grande ascetismo a cerimonie di sessualità rituale. I complessi riti del Tantra prevedono spesso che la pratica avvenga all’interno di un gruppo o tra le mura domestiche, con la propria compagna o con due donne, in certi casi. Gli aghori, invece, agiscono in autonomia e stabiliscono periodi di meditazione e ascesi a seconda della propria natura e delle proprie esigenze. Da ciò deriva la loro libertà totale in merito alla pratica sessuale. L’uomo che incontrai era solito ricevere una ragazza dal villaggio una volta all’anno. La prescelta era onorata, o almeno lo era la sua famiglia. Secondo Shivaji, ogni giovane donna desiderava ardentemente la proclamazione a “sposa” dell’aghori, ma nel corso degli anni nessuna era riuscita a ottenere più di una notte con lui, e questo comportava una sorta di parità tra le prescelte e le loro famiglie. L’aghori avrebbe potuto richiedere anche un ragazzo, e il capo villaggio lo avrebbe inviato senza discutere. L’asceta proteggeva l’abitato, ma sarebbe stato in grado di distruggerlo in un istante.

   Pensieri contradditori affollarono la mia mente quando mi trovai di fronte a quell’uomo. Mi dimenticai di Shivaji, che protestava a gesti contro la mia iniziativa atta a violare il sacro spazio del sant’uomo, e mi dimenticai dell’umidità, del calore, degli insetti e dei serpenti nascosti tra le ombre della foresta. Fu suggestione, forse, ma non appena misi piede nella piccola radura dove meditava l’aghori, non sentii più nulla. Come poteva un simile uomo, nudo, sporco, solo, sopravvivere in un ambiente tanto ostile? La mia esperienza dell’India mi permetteva di accettare la fede dei locali e la supremazia dell’aghori sul villaggio. Qualsiasi sadhu avrebbe ottenuto tanto potere, talvolta persino abusandone. Ma non mi stupì solo la resistenza dell’uomo. Era la sua aura a confondermi. Un misto di inquietudine e pace che premeva sul mio petto, penetrando il mio cuore. Ero in affanno, e non a causa del clima. Nessun sadhu aveva avuto un tale impatto su di me. Rimasi incantato dal movimento ritmico del suo petto accompagnato dall’armonia del suo respiro. Rapito dalla sua figura, eppure disgustato e terrorizzato, rimasi come di pietra. Non provavo il ribrezzo che mi aveva assalito di fronte a santi il cui corpo letteralmente marciva, né il terrore osceno che mi avevano causato uomini brulicanti di insetti eppure immobili nelle loro meditazioni, mentre venivano mangiati lentamente dal mondo. La mia era la paura dell’immensa vastità che emanava l’asceta estremo della radura, lo sposo ebbro che una notte all’anno si congiungeva con la sua sposa divina, lo yogin la cui mente spaziava nell’infinito scorrere dei cicli del tempo.

   E poi aprì gli occhi. E il mondo sparì nelle sue orbite di tenebra.

   Smisi di vedere e sentire. Percepii. Fu come un’onda che travolse tutto il mio essere. La Natura, la Vita, il Cosmo, tutto era in me e io ero in tutto. Non percepivo. Ero. Oscurità e Luce, Morte e Vita, Fine e Inizio. Il Tempo. Tutto si aprì alla mia mente, al mio cuore, al mio spirito. Credetti di essere morto pur sapendo di essere vivo, e credetti di essere vivo pur sapendo di essere morto. I cicli delle esistenze passate, gli Eoni dell’Universo, passò tutto in me e io passai in tutto. Nessuna esperienza potrebbe mai paragonarsi a questa. Nessuna descrizione, per quanto approfondita, potrebbe renderne la grandiosa e immensa portata per chiunque la sperimenti. Tutto è Uno. Uno è Tutto.

 

 

   Aprii i miei occhi. Non c’era più nulla dentro di me, e io non ero più in nulla. Vidi solo un soffitto di legno marcio. Non so quanto tempo trascorse prima che mi rendessi conto di trovarmi in una delle fatiscenti capanne del villaggio di Shivaji. Mi alzai dopo ore, o forse dopo qualche minuto. Il tempo mi appariva diverso, ora. Ero svuotato. Eppure una nuova forza, una nuova consapevolezza muoveva i miei passi incerti sul terreno umido che fungeva da unico pavimento alla capanna. Non so quando accadde, ma riconobbi la casa del capo villaggio. Uscii.

   Un bambino giocava da solo nel fango. Appena mi vide, corse via. Ero ancora frastornato quando il capo villaggio arrivò, accompagnato dai vari capi famiglia e da Shivaji. La mia guida rimaneva in fondo al gruppo, a capo chino.

   Mi inchinai leggermente con le mani giunte, imitato da tutti i presenti. Appresi di essere svenuto nella radura e di essere rimasto privo di sensi per quattro giorni. Il capo villaggio indicò Shivaji, che si fece avanti. Si inchinò e chiese perdono. Io non capii il suo gesto, ma mi disse di essere fuggito dalla radura, credendomi morto. Giunto al villaggio, aveva dato notizia dell’accaduto a tutti quelli che aveva incrociato sulla strada per la casa del capo, e così gli abitanti credettero che l’aghori mi avesse ucciso a causa della mia imprudenza. Tuttavia, nessuno avrebbe permesso che un giornalista europeo risultasse scomparso nei pressi del loro insediamento, dunque gli abitanti si erano fatti coraggio e avevano intrapreso il cammino di Shivaji per recuperare il mio corpo. Grande fu il loro stupore nel trovarmi vivo, al tramonto, proprio quando l’aghori avrebbe iniziato i suoi esercizi di Yoga. Così, per mia fortuna, il gruppo di arditi mi aveva trascinato fino al villaggio con la sola forza delle braccia.

   Tutti si prostrarono dinnanzi a me. Stupito, mi resi presto conto che per gli abitanti ero stato in qualche modo benedetto dall’aghori. Invitai tutti ad alzarsi ed evitai di raccontare la mia esperienza, temendo seriamente che mi avrebbero costretto a rimanere e a sposare una delle loro figlie.

   Diedi una pacca sulla spalla a Shivaji e gli dissi che avrebbe dovuto accompagnarmi alla città più vicina, per farsi perdonare. Mi fermai ancora un paio di giorni al villaggio, per riprendere le forze e rifocillarmi con il cibo speziato e l’immancabile distillato locale. Il whisky aveva un sapore diverso, ora. Durante questo breve periodo, tutti gli abitanti mi offrirono omaggi e alcuni – quelli che avevano una o più figlie – mi proposero un matrimonio. Accampai scuse di vario genere, accennando anche a un’inesistente compagna che mi stava aspettando a casa. Tenni volentieri le statuette di legno e gli oggetti che mi regalarono, sapendo che la loro generosità non derivava dalla mia nuova aura spirituale, bensì dalla tradizione di grande ospitalità di quella gente. Il volto di Shiva inciso nel legno mi osserva ogni giorno, ora, condividendo lo spazio con varie rappresentazioni di suo figlio Ganesha. Ho molte statue di divinità indiane, ma quelle del villaggio dell’aghori mi ricordano sempre l’esperienza più importante della mia vita, e la gioia di quelle persone, che, pur non conoscendola, l’avevano intuita.

   Me ne andai poco dopo l’alba. I miei pochi bagagli iniziali ora straripavano di doni. Trovai Shivaji già alla guida dell’unica auto del villaggio. Mi sorrise e io, che non ho mai sorriso tanto, lo ricambiai.

   Shivaji mise in moto. Una folla di persone urlanti si era accalcata intorno alla macchina. Avevo ricambiato la loro ospitalità con una bottiglia di whisky irlandese, nemmeno di qualità. L’avevano finita in una sera, dandone un po’anche ai bambini. All’inizio pensai che l’avrebbero offerta all’aghori, ma un dono va sempre accettato da chi lo riceve. Pensai a lui, all’aghori. Lui mi aveva offerto il dono più grande. Non lo avrei mai dimenticato. La mia vita non sarebbe più stata la stessa.

   Lasciai dietro di me il villaggio, la foresta, l’aghori. Scomparvi nella luce del giorno.

  

 


 

 

 

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